Le elezioni amministrative, tradizionalmente snobbate dai cittadini di Hong Kong, sono diventate un importantissimo test sulla governance cinese
Affluenza record alle urne ieri a Hong Kong, dove hanno votato per le elezioni per i consigli distrettuali quasi tre milioni di cittadini, il 71,2% degli aventi diritto, il doppio degli elettori che si erano recati alle urne nel 2015 (il 47% degli aventi diritto). Per molti votanti, è stata la prima volta.
Di solito, nelle elezioni distrettuali di Hong Kong, si parla di questioni locali: le scuole, i trasporti, la gestione dei rifiuti. Questa volta, però, dopo cinque mesi di proteste pesantissime, il voto assume una valenza politica inedita. Quello di ieri è il primo appuntamento elettorale dall’inizio delle proteste anti-governative cominciate a giugno scorso ed è visto da molti come un referendum sulla popolarità del movimento pro-democrazia contro i sostenitori dell’amministrazione guidata da Carrie Lam.
Fino alla scorsa settimana, si dubitava persino che le elezioni potessero avere luogo, dopo gli scontri del fine settimana al Polytechnic University, in cui la polizia ha fatto irruzione, arrestando molti manifestanti. Il voto si è svolto invece abbastanza tranquillamente, lunghe file ordinate, fino alla chiusura dei seggi.
È stato il primo fine settimana senza gas lacrimogeni per le strade da metà agosto, anche se alcuni media locali rilevano scontri tra sostenitori di candidati rivali.
In base alle prime informazioni, si configurerebbe una sconfitta pesantissima per il partito filo-Pechino Alleanza democratica per il miglioramento e il progresso, che dei primi 100 seggi assegnati ne avrebbe ottenuti solo 10. Molti rappresentanti della rivolta sono tra i membri eletti. Nel 2015, le forze pro-Pechino avevano attenuto più del 54% dei seggi, ma la rivolta sembra aver cambiato per sempre la situazione.
Si ripropone in modo clamoroso l’antico teorema che progresso economico senza libertà non possa durare nel lungo periodo. È un laboratorio, quello di Hong Kong, da osservare da molto vicino, anzi da dentro, perché rischia di svelarci tensioni forse presenti anche all’interno della monolitica struttura di convivenza civile sul continente cinese.