Italia: terra di approdo o di partenze?

Se partiamo dai dati, forse possiamo anche programmare policy e regole intelligenti, per gestire al meglio i flussi in entrata e in uscita

È stata presentata nei giorni scorsi a Roma la XIV edizione del “Rapporto Italiani nel Mondo” della Fondazione Migrantes della Conferenza episcopale italiana. “L’Italia vive una spaccatura culturale e identitaria tra accoglienza e rifiuto, tra l’essere terra di partenze e luogo di approdo”, si legge nel rapporto. Ed è proprio così.

Dal 2006 al 2019 la mobilità italiana è aumentata del 70,2% passando, in valore assoluto, da poco più di 3,1 milioni di iscritti all’Aire (Anagrafe degli Italiani residenti all’estero) a quasi 5,3 milioni.

Oltre 2,8 milioni (54,3%) di nostri connazionali hanno scelto l’Europa, oltre 2,1 milioni (40,2%) l’America. Il Regno Unito è la prima meta prescelta nell’ultimo anno (+11,1% rispetto all’anno precedente) anche se molte delle nuove iscrizioni potrebbero essere “regolarizzazioni” sollecitate dalla Brexit. Al secondo posto, c’è la Germania (-8,1%), poi la Francia (14.016), il Brasile (11.663), la Svizzera (10.265), la Spagna (7.529).

Con 22.803 partenze continua il “primato” della Lombardia, la regione da cui partono più italiani, seguita dal Veneto (13.329), dalla Sicilia (12.127), dal Lazio (10.171) e dal Piemonte (9.702).

L’attuale mobilità italiana continua a interessare prevalentemente i giovani (18-34 anni, 40,6%). Per quanto concerne il livello di istruzione, in prevalenza gli emigrati italiani hanno un titolo di studio medio-alto.

Se, da una parte, è naturale che in un contesto globalizzato come quello attuale soprattutto i giovani, in particolare quelli con una buona formazione, si spostino per studiare o svolgere attività di ricerca, è importante, dall’altra, distinguere tra mobilità e migrazione, poiché a quest’ultimo concetto è attribuito un carattere di necessità e non di scelta. Se riportare in Italia i nostri talenti è un obiettivo importante, forse lo sarebbe meno se riuscissimo ad avere un bilancio in pari, attraendo lo stesso numero di “cervelli” stranieri.

Per riuscirci, è necessario investire in un sistema di istruzione che sia adatto ad accogliere gli studenti internazionali. L’Italia ha fatto passi in avanti in questo senso: tra il 2013 e il 2017 la percentuale di studenti stranieri iscritti a un corso di laurea in Italia è aumentato quasi del 20%, ma molto si dovrebbe fare ancora.

E non basta: operare sulla competitività del Paese è fondamentale, perché i cervelli sono attratti non solo da un sistema di istruzione moderno e innovativo, ma anche da un sistema produttivo dinamico e in crescita, che offra dunque ai giovani possibilità di impiego nei settori strategici del nostro millennio.