Abbiamo ormai capito tutti che dobbiamo pretendere conoscenza in chi ci governa. Il buon senso (quando c’è) non è sempre sufficiente
Infodemia è una parola che deriva dall’inglese “infodemic”, ed è composta dai sostantivi info(rmation) (informazione) ed (epi)demic (epidemia).
Questo neologismo è diventato di uso, più o meno comune, a febbraio scorso, quando l’Organizzazione mondiale della sanità in piena emergenza Covid, ne ha denunciato il pericolo a causa della “sovrabbondanza di informazioni”, non sempre accurate, “che rendevano difficile per le persone trovare fonti affidabili e indicazioni attendibili” a proposito del virus.
La ricerca spasmodica di risposte alle molte domande insolute riguardo alla pandemia di Covid-19 ha generato in tutte le parti del mondo una dipendenza ansiosa dalle fonti di informazione. L’Oms ha dichiarato l’emergenza globale il 30 gennaio 2020 e solo un mese dopo, su Google, erano già disponibili oltre un miliardo di risultati.
Moltissime persone, anche in Europa, sono state esposte a un’ipertrofia informativa senza precedenti. Una ricerca condotta all’inizio della pandemia (nel periodo 1° gennaio – 15 febbraio) sul coronavirus, pubblicata nel web e nei social network in Italia, Uk, Francia, Spagna e Germania, ha rilevato un totale di 6,6 milioni di post che hanno generato circa 100 milioni di interazioni tra like, share e commenti.
Come fare a orientarsi in questo bailamme di informazioni e non cadere vittima delle bufale?
Fake news
L’avvento di Internet, e soprattutto dei social network, ha facilitato l’accesso a una grande quantità di notizie senza mediazioni e ha generato l’illusione, in alcuni, che questa facilità di reperimento fosse foriera di una maggiore conoscenza. La rete, però, oltre ad aumentare la velocità di diffusione delle notizie, ha prodotto anche una disinformazione senza controllo, eliminando quella che potremmo definire la “gerarchia delle fonti”. Già nel 2013, il World Economic Forum aveva inserito la disinformazione nella lista delle minacce globali e la pandemia ha certamente esasperato questo rischio.
In questo periodo, il contenimento delle fake news è risultato particolarmente complesso, perché proprio la grande incertezza ha spinto una parte degli utenti a considerare vere le teorie più semplici o rassicuranti (o finanche complottiste!), a scapito di quelle vere. Pochi di noi avevano più di una vaga idea di cosa facesse esattamente un epidemiologo o cosa fosse un ventilatore fino a sei mesi fa; districarsi tra i molti temi complessi per i quali la competenza di cui si dispone è assolutamente insufficiente ha aperto la strada anche alla disinformazione e alle convinzioni errate.
Lo vediamo anche in questi giorni, mentre in America Latina si combatte contro la diffusione del virus, che ha causato più di 160.000 vittime, i social network della regione sono invasi da uno tsunami di fake news che riportano cure miracolose per il Covid-19, tra cui acqua di mare peruviana, citronella venezuelana e semi miracolosi venduti da un guru brasiliano in televisione. Ma anche in Europa non va meglio. All’inizio di agosto, a Berlino, 20mila negazionisti hanno sfilato per le strade della capitale tedesca al grido di “no vax” – “no mask”.
Il dibattito scientifico
Una certa responsabilità nella diffusione delle fake news può anche essere attribuita alla scienza stessa e alla sua cattiva capacità di comunicazione. La diversità di opinioni tra gli scienziati, in questo periodo, è stata per molti motivo di disorientamento. Il disaccordo pubblico tra gli esperti, nei mesi scorsi, su temi importanti come per esempio l’immunità di gregge, ha allarmato non poco la popolazione mondiale. Sicuramente le ricerche scientifiche sono state condotte in una situazione di emergenza, ma la grande fame di informazioni, unita all’enorme disponibilità di dati su scala mondiale, hanno anche fatto lievitare il numero di pubblicazioni e allentato il rigore dei criteri di valutazione, come dimostrano le clamorose ritrattazioni da parte di riviste scientifiche importanti.
Anche nel nostro Paese, seguire il dibattito tra gli scienziati sul coronavirus può risultare un esercizio esoterico: virologi, microbiologi, rianimatori litigano in tv e sui social network, disegnando talvolta scenari estremi e generando fazioni opposte. Per alcuni, la pandemia è finita, “il virus dal punto di vista clinico non esiste più”; per altri, “affermare che il rischio epidemico abbia cessato di esistere non ha nessuna base scientifica”.
Le informazioni che arrivano sui nostri tablet continuano a essere troppe e contraddittorie e hanno ingenerato in molti l’erronea convinzione che ascoltare la scienza sia inutile. Certamente, la scienza convive con l’incertezza e con la continua evoluzione del sapere; il dibattito scientifico, però, proprio per evitare di generare il panico tra chi non ha competenze specifiche per distinguere l’evidenza dalla speculazione, dovrebbe tornare nei suoi luoghi consoni, abbandonando la discussione pubblica. Comunicare dati preliminari su aspetti fondamentali del virus senza contesto può avere un enorme impatto negativo sia sul pubblico sia sui rappresentanti politici, dando voce ai negazionisti o a quanti propongono ricette miracolose. Al protagonismo del singolo scienziato si dovrebbero sempre preferire l’istituzione scientifica e sanitaria, soprattutto quando parla a nome della comunità scientifica internazionale.
Le critiche all’Oms
In questi mesi, molte critiche pesanti sono piovute anche sull’Oms. L’organizzazione mondiale della sanità è stata accusata di essere stata lenta nell’agire e a volte contraddittoria nell’informare (sull’utilità di mascherine e guanti, per esempio), favorendo addirittura alcuni Paesi (la Cina), rispetto ad altri. Sicuramente, non tutto ha funzionato come doveva e oggi l’agenzia dell’Onu appare in parte screditata. Eppure, la cooperazione internazionale, anche nel campo dell’informazione, è assolutamente necessaria. Il nazionalismo aggressivo, anche in campo sanitario, alimenta la disinformazione. La diversità d’azione e comunicazione ha indebolito la risposta internazionale al virus e ingenerato sfiducia nella popolazione mondiale. Oggi più che mai, invece, gli Stati dovrebbero condividere informazioni e risorse a sostegno della ricerca scientifica, provando ad allinearsi nella risposte alla malattia e nell’informazione globale. L’Oms “è stata prosciugata di potere e risorse”, ha dichiarato Richard Horton, editore della rivista medica Lancet. “La sua autorità e capacità di coordinamento sono deboli.”
Il budget operativo annuale dell’Oms è inferiore a quello di molti ospedali universitari e suddiviso in una serie vertiginosa di progetti di ricerca. Potenziare una risposta globale anche in termini di informazione potrebbe essere forse invece l’unico vero argine alla disinformazione. Aumentare le risorse a disposizione dell’Oms e non diminuirle è la ricetta per affrontare meglio prossime emergenze sanitarie.
In definitiva, dopo sei mesi di emergenza Covid, alcune cose ci sono più chiare: tutti abbiamo capito che “uno non vale uno” e che abbiamo bisogno di conoscenza in chi ci governa (il buon senso non basta), come ha sottolineato anche Mario Draghi nel suo recente intervento al meeting di Rimini; così come ci è più chiaro ora che l’informazione in rete abbatte i filtri ma rischia anche di disinformare in modo doloso. Sfogliare un giornale cartaceo, ogni tanto, può forse costituire un’attività da recuperare, se vogliamo avere almeno la certezza delle fonti e della responsabilità dell’informazione.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di settembre/ottobre di eastwest.