Grazie Diego!

Il più grande calciatore di tutti i tempi è anche il più celebrato, perché non è stato solo un campione dello sport, ma anche una straordinaria personalità “contro”. Benedetto e maledetto. L’istinto rivoluzionario, dal Che a Fidel

Diego Maradona non è sopravvissuto all’ultima crisi cardiaca, alle quali ci aveva talmente abituati da farci pensare che le avrebbe superate tutte senza problemi, prendendosi beffa di un destino che gli ha riservato grandissime gioie e impensabili disfatte, così come a noi napoletani, suoi eterni tifosi, lui ha regalato emozioni irripetibili – a ogni sua giocata – e dolori profondi, a ogni sua sconfitta, nella sua vita personale.

La sua popolarità globale, in un’epoca precedente ai social media, è stata dovuta alla sua straordinaria personalità, che non può essere distinta dal campione sportivo, a differenza di ciò che molti predicano da sempre, dall’alto di un evidente complesso di superiorità, opinionisti che si affannano a distinguere l’eccellenza del calciatore dal disastro dell’uomo. Ma questa differenza non esiste. Senza la sua attrazione irresistibile per gli eccessi, il piccolo Diego non avrebbe mai avuto la forza di tirarsi fuori da Villa Fiorito, il quartiere poverissimo di Buenos Aires dove è nato e da dove si è trascinato la compagna di sempre, i suoi genitori e tutto il suo clan, che non ha mai abbandonato.

Quegli eccessi ne hanno caratterizzato anche le dichiarazioni pubbliche, ora intestandosi la ribellione del sud Italia contro il ricco nord, ora incontrando i leader post rivoluzionari in America Latina, da Fidel Castro (scomparso lo stesso giorno di 4 anni fa) a Nicolas Maduro, sempre anti-establishment, anti-yankee. E come dargli torto, visto il trattamento che gli era stato riservato dagli Americani ai Mondiali Usa del 1994, quando gli organizzatori lo avevano prima pregato di partecipare, per incrementare i contratti con le grandi televisioni europee, inizialmente quasi assenti per la mancanza di stelle, e poi fatto fuori per doping (efedrina), impauriti dal significato simbolico di una vittoria dell’Argentina di Maradona, che Diego stava conducendo al successo con prestazioni indimenticabili e imprevedibili.

Il “nouveau riche” Maradona non è stato fortunato con i suoi gestori, che non lo hanno mai tutelato: non lo ha fatto il Barcellona, con la cui dirigenza non è mai entrato in sintonia con il suo clan, troppo “straccione” per essere digerito dai benestanti conservatori e benpensanti indipendentisti catalani; né il Napoli Calcio, gestito da un signore, Corrado Ferlaino, che aveva accumulato una fortuna con le speculazioni immobiliari, ma non aveva certo allestito una società caratterizzata da una governance moderna ed efficiente. Tanto da preferire tendere una trappola a Diego, dopo sette anni di successi senza precedenti, denunciandolo surrettiziamente al controllo antidoping dopo una partita di metà campionato, così da costringerlo a scappare di notte dall’Italia, non riuscendolo più a gestire (Ferlaino confessò poi di temere per la sua incolumità, se lo avesse venduto), per evitare anche di pagargli gli ultimi due anni di stipendio. Una società, il Napoli Calcio, che non riuscì nemmeno a proteggerlo dall’abbraccio soffocante della camorra, sperperando un capitale unico.

Napoli ama Diego e lui ha sempre amato Napoli! Anche su questo amore reciproco, c’è chi ha dubitato. Eppure, è stato un amore a prima vista, a pelle, tanto che Napoli non ha mai più vinto dopo Diego e Diego non ha mai più vinto dopo Napoli…

Io posso confermarvi che, quando ho avuto la fortuna di incontrarlo, a Punta del Este nel 1998, una sera in un ristorante napoletano, lui non ha esitato a staccarsi dal suo tavolo e fermarsi a raccontarmi dei suoi anni napoletani, rubando il microfono al cantante di piano bar, per intonare le note di “Torna a Surriento”.

Cosa lascia Diego a noi napoletani? Soprattutto a noi cinquantenni, che abbiamo avuto la fortuna di vederlo dal vivo per sette anni, lascia il sapore della vittoria difficile, contro i favoriti dal pronostico, contro i più forti di sempre; ci resta il gusto della superiorità indiscutibile, della capacità di fare squadra, della rivincita di un popolo fino a oggi incapace di risalire la distanza dal resto d’Europa e che, per sette anni, si è illusa di aver trovato la ricetta della vittoria, scoprendo poi che non era dovuta a una crescita delle nostre capacità organizzative, ma all’istinto da campione di Diego Armando Maradona, che non si limitava a giocare a calcio, ma chiedeva anche i compagni giusti per formare la squadra vincente e trascinava dietro di sé tutti e tutto.

La triste domanda che ci facciamo oggi è: senza di lui, avremo mai più la possibilità di tornare a vincere, a emozionarci, a piangere di gioia, ad abbracciarci (senza mascherine) sugli spalti dello Stadio Maradona?

Non lo sappiamo.

Intanto, dal profondo del cuore, diciamo: GRAZIE, DIEGO!