30 anni dalla caduta del Muro

Dopo il grande successo dei sistemi democratici, oggi ne viviamo una profonda crisi. Ne usciremo? E quando?

A Natale del 1989, io e il mio compagno di avventure da sempre, oggi neo Ambasciatore italiano in India, picconavano con emozione il Muro a Berlino, avendo compreso pienamente che ci stavamo portando a casa un pezzo di storia che non avremmo più voluto vedere.

A trent’anni di distanza, cosa è rimasto di quei 106 chilometri di cemento armato che dividevano Berlino Est da Berlino Ovest? Certamente, il ricordo vivido di quell’euforia collettiva, scatenatasi a seguito della dichiarazione di un funzionario sovietico di secondo piano, Gunter Schabowski, che segnò – senza volerlo – l’inizio di una nuova era. È interessante riflettere su come, quando il corso della storia prende una strada senza uscita, gli eventi si succedano come una grande palla di neve inarrestabile.

Il 9 novembre 1989, fu un clamoroso malinteso ad abbattere il muro: Schabowski annunciò in una conferenza stampa che le restrizioni previsto fino ad allora per i viaggi dei tedeschi dell’Est erano soppresse. Si trattava infatti di un piano graduale di aperture, che prevedeva libertà di movimento progressive, a partire dal giorno dopo. Rispondendo invece a una domanda di un giornalista italiano dell’Ansa, Riccardo Ehrman, Schabowski disse (supponendo erroneamente) che le misure avrebbero avuto effetto immediato. L’effetto fu clamoroso: decine di migliaia di persone si riversarono immediatamente nei pressi del muro, dove le guardie di frontiera furono costrette ad aprire i punti di accesso e consentire l’abbattimento. La forza simbolica dell’evento è stata tale da portare il politologo americano Francis Fukuyama a parlare di “fine dell storia”.

Il modello liberale, con al centro la forma di Governo democratica, trionfò sul sistema autoritario comunista. L’assetto geopolitico che aveva caratterizzato la Guerra Fredda mutò radicalmente in pochi anni, i Paesi si aprirono alla globalizzazione e in Europa l’integrazione acquistò nuova forza. Alla fine del Novecento sono, infatti, più di cento i Paesi classificati come democrazie, laddove ad inizio secolo se ne contavano appena dieci. Trent’anni dopo, lo scenario politico globale vede riemergere nuovi modelli di contrapposizione, nuovi muri.

La gravissima crisi finanziaria del decennio 2008-2018 ha minato certezze, ha alterato equilibri, ha sconvolto politiche. Lo scoppio della bolla speculativa ha colpito soprattutto i ceti medi, per un periodo troppo lungo per non avere ripercussioni anche sulle scelte politiche. In Europa, in particolare, la crisi dei debiti sovrani ha frenato il processo di integrazione e messo in luce le lacune strutturali della governance europea. La letteratura accademica ha parlato di deterioramento della democrazia, di fine dello slancio liberale, e i dati indicano un prevalere dei Paesi che registrano un regresso democratico sui Paesi che registrano un miglioramento. In un contesto internazionale nel quale Trump rivede, in ottica nazionalista, il ruolo degli Stati Uniti e nel quale Putin dichiara “obsoleto” l’ordine liberale, come si ritroverà lo slancio ideale che portò all’affermarsi dei valori occidentali “a colpi di piccone”?

Con gli Stati Uniti che navigano verso una gravissima deriva irresponsabile, l’Europa dovrà ritrovare energia e coraggio per rilanciare la sua prospettiva federale, l’unica in grado di restituirle protagonismo e quindi ruolo per poter mediare utilmente negli scenari di conflitti, commerciali e militari, politici e culturali.

Ma attenzione, per evitare disastri non abbiamo troppo tempo: cinque anni sì, cinquanta no…

 

Questo articolo è stato pubblicato sulla prima pagina di La Sicilia del giorno 8 novembre 2019.